ARCHIVIO CATTANEO
Da un'intervista di Nicoletta Cavadini a Lio Galfetti
-Nel suo operato si legge una grande passione e competenza, ci può indicare per lei cosa significa essere architetto oggi?
Essere architetto per me significa sostanzialmente "fare" il mestiere dell'architetto, e quindi "fare" il progetto per lo spazio di vita dell'uomo migliorandone le condizioni. Pongo particolare attenzione a cinque termini che racchiudono -a mio parere- il senso dell'attività dell'architetto: "fare", "progetto", "costruzione", "spazio" e "uomo". Il "fare" introduce la dimensione artigianale, con la partecipazione fisica, direi quasi materica, mentre "il progetto" costituisce un atto mentale precipuo dell'architetto che lo porta ad esprimere idee e pensieri, il progetto è per me il superamento di una soglia di banalità e di convenzione. Si possono però elaborare progetti reali finalizzati alla costruzione, e progetti utopici. Io mi situo nel mondo della concretezza, e penso che l'architetto debba saper elaborare progetti reali finalizzati alla costruzione di uno "spazio" per la vita "dell'uomo". In questi ultimi cinquant'anni, in cui s'inserisce fra l'altro anche il mio operato, si sono succedute moltissime interpretazioni del "fare" architettura, da quella sociologica alla strutturalista, da quella legata alla storicismo fino a quella basata solo sulla semantica. Tutte teorie affascinanti che a mio parere si sono però sempre poste a lato del "nocciolo duro del fare architettura" tralasciando quello che ritengo essere l'essenzialità: lo studio della qualità dello spazio di vita dell'uomo. In questa grande complessità del "fare" architettura, ho creduto che tale principio fosse il tema conduttore del mio modo di "essere" architetto a cui ho sempre cercato di tenere fede.
-Questo tipo di approccio del "fare" architettura si ritrova costantemente nella sua produzione, sia nella singola architettura che nel progetto a scala territoriale?
Si, perché io non faccio distinzione fra spazio architettonico e spazio urbanistico, secondo me sono due cose assolutamente inscindibili. Rispetto a come si riteneva nel passato, oggi queste sono due componenti della stessa disciplina definita cultura del territorio o "territorialità"; la territorialità ha stretta relazione con l'essenza del "fare" architettura, condizionando così la qualità di vita dell'uomo e per questi motivi credo fermamente che sia di competenza dell'architetto.
-Lei, nel corso di questi anni, ha elaborato riflessioni molto importanti e innovative sulla progettazione territoriale arrivando a definire il concetto di "città diffusa", ce ne può parlare?
Certamente, questa è una nozione implicita anche nella visione lecorbusieriana dello spazio. La territorialità non è che una declinazione dell'invenzione dello spazio aperto della modernità. Spazio continuo e spazio senza limiti, che però non determinano una "assenza di confini", ma identificano un diverso concetto di apertura diversa cioè dai limiti tradizionali. Tutto ciò si ancora nel pensiero moderno: schematizzando per arrivare dall'urbano al territoriale si può affermare che se Wright ha "rotto la scatola", Le Corbusier ha "rotto la città". Quindi oggi nell'affrontare la lettura territoriale si ripercorrono gli inizi del pensiero moderno.
-Pensiero della cultura del Moderno che è presente nella sua architettura fin dalle prime esperienze vero?
Sì, la mia prima casa progettata nel 1957 era, per così dire, "wrightiana", mentre la seconda -casa Rotalinti- era "lecorbusieriana", quello era il momento del confronto fra l'architettura organica e il razionalismo, soprattutto in Ticino fra gli anni '50 e '60. Rispetto all'enorme quantità di riferimenti culturali che si hanno oggi, allora per noi "giovani architetti" erano due i grandi maestri a cui guardare: F.L.Wright e Le Corbusier. Mies van der Rohe non era trattato nel dibattito giornaliero della giovane generazione, lo abbiamo apprezzato dopo, vi erano invece tutta una serie di figure di riferimento, come Richard Neutra, Arne Jacobsen, e Alvar Aalto ma rimanevano a corollario del dibattito di punta.
-Tra le architetture realizzate, quali ricorda come tappe fondamentali?
Fin dall'inizio della mia attività ho affrontato con particolare interesse il rapporto fra la spazialità interna e la spazialità esterna, questo continuum di cui si parlava prima. Credo che ci siano opere più riuscite rispetto ad altre, e lavori riconosciuti dalla critica; preferisco però lasciare ad altri il giudizio. Ad esempio, oggi ho letto che il Bagno pubblico di Bellinzona e la casa Rotalinti sono stati inseriti nell'elenco degli edifici protetti e, pur essendo fra i progetti più riusciti, nelle mie riflessioni di professionista posso affermare che ho imparato meno rispetto ad altri attualmente non considerati dalla critica. Credo che i progetti più sbagliati siano quelli da cui ho appreso maggiormente grazie ad un'attenta valutazione. Sicuramente il progetto che ricordo con più piacere è sempre l'ultimo, poiché quello che hai sul tavolo è nei tuoi pensieri con la speranza di riuscire a realizzarlo. Io sostengo, come ho anche sempre detto agli studenti, che architetti non si nasce ma si diventa, e si diventa ogni volta che ti interroghi sull'essenza del tuo mestiere. In questo senso l'ultima opera, proprio perché deve essere risolta e portata in cantiere ti porta ad interrogarti continuamente. La mia enorme fatica nel pubblicare é proprio data da questa continua volontà del riflettere, e desiderare di voler tornare a correggere tutte le volte che vedo un mio progetto impaginato nelle bozze !
-E sul tavolo in questo momento cosa c'è?
In questo momento sto facendo diversi progetti in Italia, in Svizzera non ho praticamente nulla nell'immediato. In Italia è difficile lavorare perché vi è molta burocrazia, la miglior condizione di fare l'architetto credo sia in Svizzera, ma nella vicina penisola ci sono molti grossi lavori. Ho diversi progetti in corso a grande scala, progetti architettonici, progetti urbanistici di quartieri e di centri commerciali. Uno in particolare a Padova -attualmente in corso- mi appassiona molto, è il Net Center. Si tratta di un grosso complesso multifunzionale costituito da di negozi, uffici, hotel e un ristorante, posizionato in prossimità dell'uscita autostradale di Padova Est, lungo l'asse di accesso alla città. Per me si tratta essenzialmente un progetto di "vuoto urbano" perché vi é uno spazio pubblico pedonale adibito a piazza di un ettaro, con un migliaio di posti auto interrati su due livelli. La torre, alta 80 metri acquisisce una dimensione territoriale e diviene "segno" per la città policentrica. La qualità di questo progetto sta nello spazio centrale vuoto, che attribuisce valore al luogo e attorno si sta pensando di realizzare altri quartieri che devono avere relazione appunto, con il polo del Net Center. Attualmente sto lavorando a questi ulteriori progetti e ad agosto, penso, il Net Center verrà inaugurato.