ARCHIVIO CATTANEO

Le riflessioni di Giovanni Gentile sulla poesia e la filosofia in Giacomo Leopardi, rispettivamente pubblicate nel 1937 e nel 1938, risultano ancora oggi interessanti per ragioni estetiche e teoretiche, queste concernenti la filosofia stessa di Gentile, quelle la poesia di Leopardi. Queste ragioni emergono nel percorrere fino in fondo quanto Gentile qui afferma della filosofia e della poesia, del loro reciproco nesso: del fatto che alla cogenza concettuale del filosofo, 'cameriere' del poeta, resti pur sempre estraneo quest'ultimo. Ciò vale, naturalmente, non soltanto per 'la filosofia della Restaurazione e del Romanticismo', ma per ogni filosofia - compresa quella di Gentile - che, pur tentando di circoscriverne razionalmente l'enigma, alla fine non abbia l'umiltà di ritrarsi nei confronti della poiesis, parola il cui senso Platone adombra nell'arcano dell'inafferrabile 'passaggio' dal non essere all'essere.

È infatti assai significativo che i limiti dell'idealismo gentiliano si facciano antifrasticamente evidenti proprio nella celebrazione della profondità della lirica leopardiana, tutta scaturente dal senso della finitudine dell'esistenza segnata dalla trascendenza della morte - onde è funesto a chi nasce il dì natale -: trascendenza, che Gentile ripudia. Se egli può scrivere che «la morte [...] è paurosa perché non esiste, come non esiste la natura, né il passato, come non esistono i sogni», è solo perché egli finisce per dissolvere l'uomo nella sua concreta esistenzialità nell'Io puro o trascendentale, universale, affatto immanente, pensiero pensante, il cui atto non è che pensiero. Di tale pensiero assoluto, atto inoggettivabile appunto perché ogni oggettivazione presuppone un atto di pensiero, è forse lecito affermare che «la morte è negazione del pensiero, ma non può essere attuale essa che si attua per la negazione che il pensiero fa di se stesso. Il pensiero infatti [...] non si può concepire se non come immortale, perché infinito»; per un tale pensiero è forse anche lecito ritenere che Dio, la natura, la storia non siano datità estrinseche, ma frutto della sua attività, giacché sarebbe possibile pensarli come indipendenti solo astraendoli dall'atto del pensiero, ovvero ancora mercé un atto di pensiero.

Questa, tuttavia, non è l'evidenza originaria per l'uomo, quanto piuttosto il fatto che, osserva Leopardi, «niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell'umano intelletto [...] che il poter l'uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza». L'autocoscienza dell'uomo si dà, pascalianamente, sullo sfondo della natura ed è la 'filosofia' donde origina la poesia di Leopardi: quella che egli stesso chiama 'ultrafilosofia'. Di fronte a tale evidenza ultrafilosofica che ad un tempo coincide con la 'filosofia vera e perfetta', «l'ultima conclusione [...] si è, che non bisogna filosofare», perché ogni concetto è mistificante a petto di tale verità originaria, prima ed ultima. È proprio a questo livello che le riflessioni gentiliane sulla poesia, quindi sulla filosofia di Leopardi, essendo affatto inscindibili i due aspetti, mostrano la loro antifrastica verità, nella misura in cui non possono non vedere nella poiesis la cifra stessa della finitudine. Se infatti, osserva il filosofo, «l'arte vive morendo, ossia integrandosi con gli altri momenti della vita dello spirito: onde accade che non c'è poeta o artista che non sia una personalità più o meno intera, pensatore insieme e uomo d'azione», allora come l'arte potrebbe non essere espressione, per così dire, della morte stessa, cioè della finitudine che cifra l'esistenza dell'uomo? Che l'arte viva morendo testimonia della sua inattualità, del fatto che a differenza dell'Io puro, pura attualità, l'arte non può mai essere attuale, pura, in breve: non può mai darsi a prescindere dall'uomo, in quanto suo proprium. Infatti questo vale anche per il pensiero dell'uomo: se non si dà arte pura, non si dà nemmeno pensiero puro, scevro di arte. Di conseguenza, l'opera non può non recare la traccia di chi l'ha creata, e da questo punto di vista la posizione di Gentile parrebbe prossima, ad esempio, a quella di Merleau-Ponty, per il quale la poiesis sorge dall'originaria implicazione di io e mondo a partire dal dato intrascendibile dell'essere-nel-mondo, da cui, con ogni evidenza, trae origine anche la poesia-filosofia di Leopardi nella sua più autentica ispirazione.

Ma le cose non stanno così. Come s'è detto, l'inattualità dell'arte si dà sullo sfondo dell'attualità del pensiero, dell'Io puro o trascendentale; ma questo, a ben vedere, non è che l'ipostatizzazione della soggettività umana (il cogito ergo sum di Cartesio), dell'originaria unità di io e mondo, del fatto, per dirla con Wittgenstein, «che io sono il mio mondo»: qui, innanzitutto, e solo qui, natura e storia non sono separabili in quanto vissute. Ma la coscienza di questa unità originaria, che si fa voce nella parola del poeta, è tale solo in quanto coscienza di sé come finitudine. Soltanto in una tale prospettiva si fa evidente il rapporto di Leopardi con la natura, ove il poeta attinge alla mistica unione con essa, come riconosce lo stesso Gentile citando, oltre all'Infinito, la splendida lettera al Giordani. Infatti l'infinito, attinto misticamente attraverso la natura, è il sentimento della contraddizione vigente tra la coscienza della finitudine dell'esistenza e l'intuita trascendenza della condizione di questa stessa finitudine, la morte. Per dirla ancora con Wittgenstein, l'infinito si annuncia (si mostra) nell'evidenza del fatto che «la risoluzione dell'enigma della vita nello spazio e nel tempo è fuori dello spazio e del tempo»; in altri termini, il senso del mondo deve essere fuori di esso, posto che, se il mondo è tutto quanto accade - evidenza indubitabile -, ciò che gli sottrarrebbe l'accidentalità non può essere nel mondo, perché altrimenti sarebbe a sua volta accidentale.

Il fuori coincide con il che del mondo, con il Mistico, giacché «non come il mondo è (il come concerne, per così dire, il dentro del mondo), è il Mistico, ma che il mondo è». Nel che del mondo - la natura - la parola del poeta attingendo l'infinito attinge l'ineffabile: questo, nondimeno, non significa affatto dissoluzione dell'io empirico, dell'uomo nella sua esistenza, nell'Io puro, ipostasi di quello, ma salto nel non-io assoluto - nel Nulla, ovvero il gran mar dell'Essere, in cui è dolce il naufragare, perché non è perdita, ma intuizione del senso ultimo: di quell'al di là che trova espressione simbolica, stricto sensu, nella 'siepe' leopardiana, ovvero in quel limite a partire dal quale soltanto può darsi il pensiero dell'infinito.

Paolo Filippo Galli