ARCHIVIO CATTANEO

Architettura funzionale


"Il Popolo di Brescia" 4 marzo 1942

Architettura funzionale

"E' un pugno nell'occhio! Stona troppo coll'ambiente!". Quante volte gli architetti funzionalisti si sono sentiti così liquidare alla spiccia le loro opere!

Il giudice frettoloso è il cittadino che passeggia nelle vie della sua città, chiuso nell'area di pensieri che si è pazientemente fabbricata per galleggiare nelle tempeste dell'esistenza. Vogliamo parlare con lui, piuttosto che con l'uomo del popolo, che certe cose non le impara dai discorsi di terza pagina; perché è lui che leggerà quest'articolo; è lo sappiamo, non ironicamente, una brava persona, che vive seriamente la sua vita e si veste di presunzione borghese solo quando va a spasso.

Egli s'interessa delle "novità edilizie": è un giusto interesse, la città dove si vive la si vorrebbe sempre più bella. Ma che cos'è la città, oggi, per lui? Uno sbrodolarsi, che sfuma nella campagna, di case "qualunque" grigie e giallicce, coi muri sporchi, con tanti buchi rettangolari; qua e là, un monumento illustre, una chiesa antica, un palazzone di Piacentini. Cammina il cittadino, contento di sapere la verità, e di colpo s'imbatte in un'architettura funzionale. Pareti limpidissime, finestre che non sono più finestre, facciate che si dissolvono nei cortili. Gli dicono di certi vantaggi pratici ottenuti, di certe ingegnose soluzioni, di nuovi rapporti tra le masse. Tutto giusto: ma non lì. Lì, quella casa, anche se ha ragione, glielo dice in modo brutale. E "stona coll'ambiente".

Ma anche in campagna, sui monti, al mare, è lo stesso. Sempre, quelle architetture funzionali - che non confondo coi graziosi passatempi "rustici" che piacciono tanto alle signore - gli capitano addosso a rompergli le uova nel paniere, a suggerirgli troppi dubbi, idee troppo strane. "Stonano coll'ambiente".

Potremmo ricordare, al nostro lettore, che quel preziosissimo "ambiente" che egli crede così carezzevolmente fuso nei suoi aspetti, è ben spesso, specie nei suoi esempi illustri, una musica "a dissonanze" fra stili ed epoche diversissime che non hanno temuto di esprimersi con indipendenza (piazza San Marco insegni); una musica che solo un'abitudine di secoli e il velo normalizzatore della patina ci fanno apparire orchestrata al modo tradizionale.

Ma preferiamo che sia così, che veramente una stonatura gridi, e stridentissima. Perché da essa gli uomini incomincino a diffidare di quell'intangibile "ambiente" che è l'espressione edilizia della loro vita e dei loro pensieri; e dalla revisione dell'architettura passino a rivedere la vita e i pensieri tutti.

Veramente, la revisione dovrebbe farsi in senso inverso. Dimentichi un momento, il lettore, le solite polemiche e pregiudizi e i pettegolezzi sull'architettura moderna; guardi nella sua coscienza. L'attuale sanguinosa crisi del mondo non gli insegna niente? Non lo rende scettico e disgustato di tanti idoli falsi della civiltà? Di un equilibrio sociale così poco equilibrato? Di certe gerarchie di valori che si sono rivelate così insufficienti per le richieste più elementari dell'anima e del corpo?

Voglio ammettere che lo spettacolo di chi muore, e soffre sui campi di battaglia possa purtroppo ispirare in qualcuno solo una laudazione accademica e irresponsabile di un buon tempo antico. Ma chi ne è colpito direttamente, nei lutti familiari, nella perdita di quei beni materiali che erano divenuti il suo gran miraggio, come può non desiderare di far piazza pulita intorno, di rifiutare la vita passata per incominciarne una nuova, più astratta dai piaceri che passano?

Se mi guardo intorno, vedo dei musi lunghi. Non tanto per le inevitabili asprezze del tempo di guerra, chè anzi vediamo ormai la vittoria delle armi, lentamente ma sicuramente, farsi sempre più certa; ma perché ci sentiamo un po' tutti colpevoli, e indegni di quel sacrificio dei combattenti. Siamo sconfitti dentro di noi, vorremmo diventare più puri e più buoni, ma non sappiamo ancora levarci dal marcio.

In fondo, siamo rimasti ancora al punto di venti o trent'anni fa. La parola rivoluzionaria di alcune idee politiche non è stata intesa, nella più vitale essenza, che da una minoranza di pochissimi. Se così non fosse, non si troveremmo ancora così abbarbicati, per esempio a quella forma di "ambiente" che appunto traduce, in termini d'edilizia, il bagaglio della nostra nostalgica vigliaccheria: e che è solo l'incrostazione cadaverica di quegli affetti semplici che costituiscono la "tradizione" individuale di ogni uomo, e che germinano anzi più vigorosi da una metamorfosi delle forme. La nostra disperazione di gente fallita è ancora così arcadica, che mai ci passa per la testa di volere spazzar via, apocalitticamente, le nostre città. I tantissimi, anche tra gli "intellettuali" che ritengono esaurita la funzione delle avanguardie artistiche, riflettano su questo orrendo statu quo spirituale che insiste ad affiorare, oltre le paci e le guerre, dai molti uragani scatenati da pochi ribelli. La rivolta marinettiana contro il passato, illustre od oscuro, è più attuale che mai, per la sua eterna necessità morale: essa non è, pur nelle sue apparenze orgogliose, un atto di orgoglio ma di modestia: un modo violento e paradossale, ma indispensabile, per ricondurre gli uomini dal sonno nelle grandi cose di ieri verso le più piccole e meno suggestive e meno comode cose di oggi, tanto più urgenti per giustificarci: anche se soddisfano meno la nostra vanità (che poi alcuni l'abbiano anzi intesa e sfruttata per servire la vanagloria o il tornaconto, non ci interessa: sono sempre più numerosi gli speculatori del vecchio).

Come venti o trent'anni fa, le poche vere architetture d'avanguardia sono ancora urli lanciati in mezzo ad una conversazione forbita. Per il borghese sono "gaffes". Ma da esse si schiude un'atmosfera nuova: come se le dimensioni dello spazio, così ben sistemate a riposarsi nell'ambiente tradizionale, si moltiplicassero e si dilatassero; come se quei muri incandescenti e quei vetri e quei nodi di superfici scavalcassero la prigione delle case intorno e andassero a trovare il cielo, le montagne, la fine infinita delle strade. Le idee convenzionali sono travolte, ci appaiono i dilemmi redicali (sic!): non si pensa più alle case, alle chiese, agli stabilimenti: ma all'abitare, al pregare, al lavorare. Dalle forme si torna alle funzioni, alle sorgenti delle forme.

"Il nuovo per il nuovo" non è poi, ancor oggi, una formula così ammuffita e banale come si dice. Se non teoricamente, è almeno praticamente, in mezzo a quella compiacenza per il vecchio che tuttora ci avvelena, un punto di partenza per costruire davvero. Costruire come? Qual'è, nel caso nostro, il messaggio che scaturisce, per l'uomo moderno, da tutti quei tentativi solitari di nuova architettura che hanno voluto accendere una luce di metamorfosi in un'aria ostile, e ne sono stati ostinatamente ricacciati indietro; nuove musiche che volevano rigenerare un concerto esausto, e che non avendo potuto cantare vi sono rimaste soltanto come una stonatura?

Vien voglia di collegarle tra loro, in un panorama organico, dove i motivi comuni finalmente si potenziano. E' quello che ci aiuta a fare il recentissimo volume di Alberto Sartoris: "Gli elementi dell'architettura funzionale" (Hoepli, Milano) nella sua 3.a edizione completamente rifatta dalle precedenti. Non è questo il solo interesse delle 950 pagine di testo e di illustrazioni di tutte le più significative opere di architettura funzionale nei 5 continenti. Chi si occupa più da vicino di architettura, vi troverà anche un mezzo utilissimo per "fare il punto" sull'evoluzione singola di ogni architetto; sulle varie interpretazioni di uno stesso tema; sulle spiccatissime caratteristiche che, contrariamente a un'opinione diffusa, distinguono una nazione da un'altra.

Ma l'impressione prima di chi sfoglia il libro è di viaggiare per un fantastico paese dove quelle architetture, condannate a vivere nella realtà come tanti avamposti dispersi, dominano finalmente il campo e ci parlano in coro con un'eloquenza inattesa. E', si potrebbe dire, il quadro di tutto un movimento artistico che ha voluto dimenticare di essere "artistico" riuscendo così, in definitiva, ad essere più artistico degli altri. Un quadro pieno anch'esso, a considerarlo ora pur in una selezione così accurata, di contraddizioni e d'incertezze: appunto perché è quello di tanti tentativi costretti a prender forma in mezzo a mille compromessi. Oggi, in cui lo sfacelo del nostro contingente ci aiuta a riguardare verso l'eterno, ci sembrerà, per esempio, che quegli architetti si siano anch'essi troppo esaltati di quel contingente, per aver obbedito ai dogmi di un materialismo che ci ha rovinati.

Però, se anche quegli architetti, nei loro equivoci dottrinari di artisti non teorici, si sono illusi di credere in un mondo dominato dalle automobili e dai gabinetti da bagno, hanno poi saputo, più degli altri, andare con le loro opere oltre la rettorica progressista del positivismo. Quelle case, fatte così bene per servire le richieste materiali delle automobili e dei gabinetti da bagno, sono proprie quelle che conducono i pensieri dei loro abitanti oltre le automobili e i gabinetti da bagno: verso le ascensioni scomode ed ardite alle vette spirituali. E' soltanto così che nasce un'arte vitale ed espressiva: non dai superbi programmi aulici, ma dalla carità confusionaria ed inconsapevole di chi s'immerge nei pasticci di tutti i giorni, e credendosi non un poeta destinato in anticipo al sublime, ma un servo ed un amico degli altri uomini, partecipa non rettoricamente dell'immensità del creato, e dal religioso spavento trae il meglio di sè stesso. Anche se il significato e il valore di un'architettura dipendono non solo dal "modo" ma dal "tema", e crediamo ora di poterci esprimere più compiutamente in un tempio che in una stalla, è importante che si sia capito che si arriva al tempio solo partendo dalla stalla. Per merito di questi "funzionalisti" che, essendo i veri architetti dell'epoca, sono chiamati "ingegneri" dai loro contemporanei: perché vogliono e sanno scoprire una via di bellezza dove da secoli più non la si cercava.

Sia detto anche per quegli odierni "superatori" estetizzanti del funzionalismo che vorrebbero invece partire dal tempio per arrivare alla stalla; preoccupati di intingere in una superbietta mondana anche il disegno di uno sgabello. (Un discorso che si potrebbe fare anche della pittura astrattiva nei confronti con certa altra pittura oggi in voga presso i collezionisti; quella pittura attrattiva che finalmente, e giustamente, il libro del Sartoris presenta ed illustra con ampiezza, come la più vicina alla primordiale interiorità dell'architettura funzionale).

Cesare Cattaneo