ARCHIVIO CATTANEO

Pioggia, gronda e rivestimenti di facciata


Rassegna d'Architettura, aprile 1940

PIOGGIA, GRONDA E RIVESTIMENTI DI FACCIATE

Questi " punti di vista " sono meditate, anche se personali confessioni. Per questa ragione l'autore troverebbe molto utile - e Rassegna molto simpatico - se l'opposto parere - e quale ragionamento non ne trova? - si concretasse polemicamente.

(a.c.r.)

Tra gli atteggiamenti caratteristici dell'architettura moderna è essenziale quello di affrontare un problema fin dalle sue radici; di sottoporne a revisione l'impostazione stessa. In quello stato di disorientamento primordiale che è proprio di chi, fatta tabula rasa delle abitudini mentali accumulate nei secoli, sente la necessità di ricominciare con le sole sue forze, l'architetto moderno rivolge a se stesso le domande elementari: che cosa è una casa? che cosa è una finestra? che cosa è una colonna? E' con la risposta a quelle domande che la casa ridiventa organismo, la finestra polmone di luce, la colonna sostegno.

Ci siamo chiesti con altrettanta attenzione che cosa è una " gronda "? Metto "gronda" tra due virgolette perché non intendo con essa una determinata forma consacrata dall'uso e gratificata ormai dall'universale antipatia dei contemporanei, ma in senso più lato ogni riparo che tiene le facciate all'asciutto ( anche una balconata continua per esempio ).

Evidentemente abbiamo concluso che non vale la pena di tenere le facciate al coperto, e che basta studiarne il rivestimento con quel materiale e con quegli accorgimenti che lo rendono atto a difendersi dall'acqua. E l'abolizione della "gronda" è diventata un'abitudine, quasi un dogma polemico.

Non credo che ciò possa accontentare quell'istinto di cui si diceva di investire i problemi alle radici, di cercarne la soluzione più semplice che corre diritta ed immediatamente allo scopo. Secondo me l'abolizione della " gronda " non è una semplificazione ma una complicazione.

Che cosa succede di una facciata " lavata " dall'acqua? Anzitutto che non è affatto lavata: l'acqua piovana batte contro la polvere ma invece di asportarla - si pensi a quanto sforzo di gomiti per pulire un vetro! - non fa che trascinarla lungo i muri impastandovela a formare quelle macchie e quegli " sbrodolamenti " che bastano talvolta a far sembrare squallide e sorde le superfici più vivaci e squillanti. Appoggiamo la mano sul rivestimento verticale di una facciata in un punto situato al coperto e in un punto all'acqua; nei punti all'acqua ci troveremo sulle dita tutta quella polvere che l'acqua ha trasportato dai... centri di produzione - davanzali, balconi, e in genere tutti i piani orizzontali - diluendola su tutto il muro.

Non basta. L'acqua scivola e penetra dappertutto, con astuzia satanica. Il costruttore per difendersi si rassegna a fare l'acrobata: gocciolatoi studiati con pedanteria; percorsi tortuosi che conducono la goccia d'acqua, di caduta in caduta, di pendenza in pendenza, fino alla bocca di scarico; risvolti protetti da complicati lamierini; riprese degli intonaci e giunti fra materiali diversi, talmente fragili nella loro funzione, che l'efficacia dipende essenzialmente dalla precisione e dall'abilità della posa in opera.

Cioè la " gronda " terminale, che avrebbe potuto forse eliminare l'acqua immediatamente, fin dall'inizio, si sostituisce spezzettandola lungo la facciata in tante gronde minuscole ( gocciolatoi ) più fragili e costose e complicate; a prezzo di mille rinuncie a materiali e sistemi costruttivi e invenzioni plastiche; ed ottenendo nel migliore dei casi risultati che hanno più il carattere di un rimedio che di una soluzione, e di cui la garanzia è solo per qualche anno.

( Un discorso del genere si potrebbe fare a proposito dell'annosa questione dei tetti inclinati e delle terrazze. Tutti son d'accordo ormai, sui molti vantaggi di un tetto piano, specialmente se inquadrato in un completo schema urbanistico; ma si deve convenire che fino a quando i tetti piani per esigenze di preventivo saranno impermeabilizzati con asfalto, cemento plastico ed altre materie infide tali da sfuggire al consapevole dominio del costruttore, a vantaggio del tetto inclinato resterà pur sempre il principio semplicissimo che l'acqua scorre in pendenza e non in piano; e che il sistema delle tegole, cioè di lastre sovrapposte l'una sull'altra come tanti successivi gocciolatoi, risolve il problema con ben più istintiva ed eloquente chiarezza di quelli adottati sui tetti piani, che si fondano su una molto più incerta garanzia di tenuta dei bitumi e dei giunti: un limpido principio geometrico di fronte ad un dubbioso e relativistico principio empirico).

Ma ritorniamo alle limitate garanzie offerte dalla spezzettatura delle gronde.

Non si dice tutto ciò soltanto in vista della "durata" di una casa: che potrebbe essere non superiore (Sant'Elia) a quella di una generazione. Ma le case che durano dieci anni, vent'anni, dovrebbero nella loro breve vita mantenersi sempre nuove; allo scadere dei dieci o vent'anni, essere demolite o smontate o trasformate perché i loro criteri costruttivi od estetici non soddisfano le nuove esigenze, non perché sono ormai ridotte in uno stato che soltanto l'abitudine ci evita di definire indecente.

Una città dove non esista la patina del tempo: quale programma! Invece l'acqua deturpa ogni cosa, penetra nelle crepe più sottili, sgretola i materiali, li macchia, gocciola, sporca di polvere le facciate, rimbalza dalle terrazze e dai davanzali sulle finestre e sugli intonaci, sbiadisce le tinte. Le vernici degli infissi si screpolano, il legno e lo stucco si dilatano e si contraggono; quando piove apri una finestra e il temporale sembra ti entri in casa, e nemmeno puoi vedere di là dei vetri perché questi sono dilavati dalla pioggia. E' un incessante maltrattamento della casa, un ostacolo all'intero godimento di essa.

Perché non si scioglie il dilemma e non si riammette il concetto di "gronda" più spesso e con più convinzione nel vocabolario dell'architettura moderna? Una gronda che determini una "fascia di rispetto" intorno all'edificio: come fanno i paraspigoli sugli spigoli, le copertine ai libri, le cornici intorno ai quadri.

Una gronda che sia naturalmente non solo estesa e totale così da risultare veramente efficace (tornerò più sotto su questo punto) ma che per la evidenza funzionale si accompagni di pari passo con l'evidenza plastica: non una aggiunta di ripiego a un'architettura già conclusa, ma dell'architettura elemento indispensabile.

Una "gronda" perciò può essere bella; ed esempi anche modernissimi lo dimostrano. Non si dimentichi, anzi, che un argomento che giustifica la funzionalità come un elemento positivo del giudizio estetico può essere questo: che l'uomo, attratto verso un edificio da un interesse funzionale (pratico) e da un interesse plastico, può dedicare tutta la sua attenzione al fatto plastico - che è quello che arricchisce il suo spirito - solo quando le esigenze funzionali sono soddisfatte, cioè quando si esauriscono col loro stesso raggiungimento. E' allora che l'architettura ha acquistato la "naturalezza" .

Un ritorno alla gronda risolta con forme geometriche pure è già stato tentato più volte da alcuni tra i migliori architetti moderni; ma non forse col sentimento di voler fare una cosa "indispensabile", la cornice del quadro.

Cerchiamo di vedere perché. Esso urta contro anni di polemica, che hanno pure il loro peso nella vita di un architetto: e, da noi contro il colore "mediteranneo" di certi presupposti sentimentali della formazione dell'estetica moderna.

Urta infine, ed è forse un motivo essenziale, benchè meno confessato, contro la possibilità - intravista dagli architetti con subitaneo entusiasmo- di comporre liberatamente sulle tre dimensioni senza dovere a un certo punto raccogliere tutto sotto una fastidiosamente immancabile "orizzontale" ( una libertà che poi si è pagata cara con tutte le limitazioni e le rinunce imposte dalla mancanza di gronda). Insomma si è costruito colla gronda per tanti secoli che non è parso vero di farne a meno.

La ribellione era appunto contro la gronda ad "ala di cappello"; contro quella monotona fascia d'ombra che sembrava fosse sempre lì per impedire alle facciate di sbattere direttamente contro il cielo e il paesaggio; e che non era certo fatta, nella forma in cui si presentava ormai, per soddisfare il desiderio di geometria di cui è nuovamente assetato il mondo.

Ma ho detto fin da principio di non voler formalizzarmi sulla parola "gronda" in sé stessa; e che invece mi riferivo a un qualunque sistema costruttivo che tenesse le facciate all'asciutto. Gli elementi di riparo potranno essere, per esempio, di vetro, se l'ombra darà fastidio; potranno essere balconate perimetrali; potranno essere ( e qui davvero la gronda più non c'entra) negli edifici più alti, dove una gronda per essere efficace dovrebbe diventare enorme, arretramenti della facciata nella parte più bassa, o formazione di portici e di loggiati od altri espedienti. Naturalmente non mi impegno su nessuno di questi esempi, che cito tra i primi esempi che vengono alla mente.

Essi valgono però anche per confutare un'altra, stavolta di carattere funzionale, delle obbiezioni che hanno determinato l'offensiva contro la gronda. Quella che la gronda, nella sua sporgenza normale, che evidentemente non si può troppo aumentare, è in fondo inutile; e basta un poco di stravento, specie negli edifici a molti piani, per neutralizzarne l'efficacia. E' chiaro che l'obbiezione si rivolge solo alla "gronda" vera e propria come è intesa dalla abitudine e dalla "storia".

Naturalmente, con le facciate esposte all'acqua, è aumentata anche l'importanza dei rivestimenti; un problema che ha sempre fatto ammattire gli architetti. Ecco qualche mia opinione in proposito:

1) i rivestimenti dovrebbero essere sempre a superficie liscia e dura; cioè inadatti alla sosta dell'acqua e della polvere, graditi al tatto, resistenti agli urti e alle scalfitture. Credo personalmente quindi che abbiano fatto il loro tempo gli intonaci granulosi.

2) colori: li vorrei sempre chiari in obbedienza ai soliti fattori psicologici ma anche perché così è meglio percepibile il volume attraverso il chiaro scuro; e "sporchevoli" ( nel senso d'uso della parola: di cosa cioè che si sporca non più facilmente di un'altra, ma che più presto di un'altra mostra lo sporco): un colore "sporchevole" è brutto quando diventa sporco ( ed allora ci si ricorda di pulirlo) mentre un colore non "sporchevole" è tale solo perché già sporco fin dal primo giorno;

3) alle lastre di marmo - multimillenarie, estratte passivamente dall'uomo, irregolari nella loro compattezza, macchiate, paesaggistiche, direi "equivoche"- preferisco quelle di vetro -artificiali, matematiche, nuove. Per l'inalterabilità agli agenti atmosferici, i rivestimenti di vetro sono da considerarsi tra i pochissimi adatti alle facciate battute dall'acqua;

4) nel modo medioevale di costruire che è ancora oggi in uso, la "pelle" d'intonaco steso in opera è forse ancora, pur con tutti i suoi difetti, un rivestimento che soddisfa l'istinto dell'architetto meglio dei rivestimenti a lastre: i quali, in ogni caso più costosi ( la sola posa in opera della lastra equivale o supera il prezzo di un buonissimo intonaco ), divertono il disegnatore con le piacevolezze della quadrettatura dei giunti, ma fanno impazzire il costruttore appunto per quei giunti che sono veicoli di gelo e di umidità, e per quelle zanche empiricamente appiccicate alla struttura. Già negli ultimi anni si è incominciato a migliorare gli attacchi delle zanche, a renderle solidali talora coi ferri del cemento armato, ecc; ma su questa strada, che allarga lo studio del rivestimento considerandolo giustamente non più come elemento a sé stante, ma in relazione cogli altri elementi dell'edificio, vengono spontanee alla mente altre soluzioni che trasformano alle basi l'aspetto della questione. Una è quella di far coincidere il rivestimento con la struttura stessa; per esempio, nei rivestimenti ad intonaco, incorporandoli nel getto del cemento armato. Un'altra quella di eliminare le casseforme di legno colando il calcestruzzo dentro tubi già fabbricati a piè d'opera nelle dimensioni richieste, col materiale scelto per la superficie esterna; per esempio intonaci, graniglie, ceramiche, metalli. Un'altra - che non è che un'evoluzione dal sistema usato da che mondo e mondo di costruire a masselli - di mettere in opera blocchi omogenei od eterogenei già prima apprestati con la loro rifinitura esterna. Tutti questi sistemi, che ci appaiono subito ingegnosi e suggestivi per la simpatia che suscita sempre la sintesi in una sola soluzione di diversi problemi - struttura portante, rivestimento, isolamento termico-acustico, ecc.- presuppongono però l'avvento su larga scala di quella pre-fabbricazione in serie degli elementi costruttivi che si auspica da tante parti ormai da decenni e che per realizzarsi ha bisogno soltanto di quel minimo di indipendenza cerebrale che possono avere soltanto i popoli che sentono l'ambizione di risolvere le difficoltà senza ricorrere al comodo soccorso del loro passato e dei loro ingombrantissimi antenati.

Nei cantieri d'oggi, tutti questi sistemi sono o inapplicabili o troppo costosi: esigono assoluta precisione di livelli, organizzazione di macchine, accuratezza nella posa di elementi già rifiniti in ogni loro parte, costruzione a secco coll'eliminazione del concetto dilettantesco del "mastice"; esattamente l'opposto di quel romanticismo edilizio di cui siamo tutti responsabili, architetti e muratori e capomastri.

Un rivestimento che ho avuto occasione di adottare su tutte le facciate esterne di una casa d'affitto a Cernobbio, e che risponde bene ai requisiti suesposti - è quello ad intonaco di graniglia di marmo levigata in opera ( nelle parti della struttura a profilo più esile e più complesso, come le mensole, i balconi, ecc., incorporando la graniglia nel getto del calcestruzzo stesso, entro casseforme spalmate di gesso; stuccando poi e levigando dopo il disarmo). Tale intonaco, che è molto economico, e di colore duraturo perché affidato ai grani di marmo e non a materie coloranti mescolate col cemento legante, ha dato buon risultato: la levigatura ha ottenuto una superficie liscia e compatta più vicina nell'effetto alla pietra che all'intonaco, ed arricchita dagli innumerevoli grani di marmo variamente colorati dal bianco al rosso e al bruno; trascorso il periodo principale di assestamento della struttura portante, non si sono ancora verificate incrinature di sorta, anche per la disposizione dei giunti lungo le linee di divisione tra la struttura e le murature di riempimento.

Como, Marzo 1940

Arch. CESARE CATTANEO