ARCHIVIO CATTANEO

Al calar della notte, mentre è alla ricerca dell' itinerario smarrito, un viaggiatore giungr nei pressi di una casa solitaria circondata da pioppi alti e cupi; una musica meravigliosa e malinconica sembra richiamarlo verso l'interno dell'abitazione e farà da tema melodico alla narrazione dolente che la padrona di casa, in stato sonnambolico, non tarderà a confidare all'ospite sconosciuto sul suo dramma sentimentale.

Un "racconto nel racconto", dunque, in accordo con la costante strutturale che Sacher-Masoch adotta anche per gli altri Racconti di Galizia.

Chiaro di luna, il titolo letterale del racconto è Notte di luna in Galizia, si sviluppa dalla Sonata per pianoforte n. 27 di Beethoven e sembra far scorrere le lacrime della protagonista sui tasti del suo pianoforte, in un'atmosfera indistinta tra sogno e realtà, dove amore e morte si intrecciano e si confondono.

Si potrebbe addirittura sostenere che Sacher-Masoch abbia qui inteso, in qualche modo, far rivivere la leggenda che accompagna la stesura della celeberrima sonata, che Beethoven avrebbe concepito nel corso di una passeggiata durante una notte di luna piena. Aveva sentito una sua musica, che proveniva da una casetta solitaria, interrompersi bruscamente; alla successiva esclamazione della giovane pianista: « quanto vorrei assistere a un concerto di Beethoven! », il maestro sarebbe entrato nella casetta e, dopo aver eseguito per la fanciulla alcune sue composizioni, estasiato dai riflessi lunari che invadevano la stanza le avrebbe promesso di comporre in suo onore questa sonata al "Chiaro di luna".

Simile al Don Juan di Kolomea, e ad altri precedenti racconti, sopratutto nell'affrontare il tema delle relazioni tra uomo e donna, Chiaro di luna tuttavia se ne discosta. La vicenda, che pure si svolge nei dintorni di Kolomea, è infatti defilata dalle vicende politiche e sociali che hanno radicalmente caratterizzato quel territorio nel ventennio centrale del XIX secolo e, neppure sullo sfondo, si accenna ai moti del '46 e del '48 o al dissidio tra polacchi e piccoli-russi; la condizione del contadino rimane sostanzialmente estranea allo sviluppo del racconto. Si capisce, Chiaro di luna è la confessione di una sonnambula, e il contrasto è interiore, confinato fra amore e dovere, fra realtà sensuale e intelletto.

Il punto di vista dell'esistenza del mondo slavo-orientale soddisfa, per ammissione dell'Autore, le idee di Schopenhauer: lo stesso pessimismo sano, lo stessp riconoscimento senza riserve delle leggi della natura, la stessa sensazione di necessità, la stessa rassegnazione, la stessa severità della fedeltà, lo stesso amore per l'uomo e per gli animali.

La vita è una rinuncia costante, la rinuncia a realizzare i propri ideali per adempire al proprio dovere.

Ma il racconto approfondisce il pensiero di Schopenhauer, che pure nel primo capitolo viene enunciato in modo (fin fastidiosamente) puntiglioso, per introdurre l'ambiguità e la tensione della dualità goethiana tra materia e spirito, fra terra e cielo, tra uomo e Dio, tra apparenza e realtà (fenomeno e noumeno). In questo il filosofo di Danzica si apparenta, ma anche si differenzia, sia da Platoneche da Kant, che pure rappresentano le sue fonti culturali più evidenti; per Kant il fenomeno è realtà, per lui è invece apparenza, pura illusione del soggetto che percepisce.

In Goethe e in questo racconto, che si potrebbe ben definire il "racconto della conoscenza", la dualità è quella di Faust, il sapiente che è disposto a giocarsi l'anima col diavolo per tentar di soddisfare una sua impossibile ricerca della conoscenza assoluta delle cose materiali.

Pan Twardowski, il Faust polacco, sospeso com'è sopra la cattedrale di Cracovia e conteso da Satana a Dio in una condizione che non ammette una soluzione definitiva, rappresenta bene questa condizione di ambiguità, come l'Autore non manca di sottolineare nel primo capitolo.

Il protagonista maschile, Vladimir,

«[...] seduto nella sua vecchia poltrona sciupata... legge il Faust, questo libro meraviglioso che l'ha così consolato e ritemprato: nel mio petto, ahimè!, due anime convivono...»;

l'una avvince appunto l'uomo alla terra, alla natura, alle passioni, alle lusinghe di Mefistofele, l'altra anela allo spirito, all'infinito, a Dio. È la lotta perenne dell'esistenza tra male e bene, tra finito e infinito.

È una difformità dalla struttura della narrazione; non è più Olga che rivive in prima persona la storia della sua infelice vicenda sentimentale, è lo stesso Sacher-Masoch---trattino---non per niente la critica tedesca lo aveva definito "il legittimo successore di Goethe"---trattino---a interrompere improvvisamente nel racconto, sotto le spoglie di Vladimir, per esprimere la propria inquietudine esistenziale, dove si mescolano le passioni terrene, la brama di conoscenza e quell'anelito morale, per non dire spirituale, che permea tutta la sua opera di scrittore.

Il Faust di Goethe incarna il dramma nel quale si dibatte la cultura umanistica tra il XVIII e il XIX secolo, l'aspirazione a un sapere immortale e la conseguente insofferenza di ogni limite costitutivo, un insieme di ambivalenze che accompagna il percorso dell'uomo nella storia.

Certamente la dualità del Faust non è una riproposizione del "mito della metà" del Simposio; c'è anche qui una perenne ricerca di perfezione, nel racconto di Sacher-Masoch addirituura una presenza allusiva della Luna, l'astro che nel dialogo platonico dà origine all'essere perfetto perché riassume contemporaneamente in sé i caratteri sia del Sole che della Terra; ma nel Faust, più che la ricerca ossessiva di una parte di sé, che sembra "smarrita" fin dai primordi, si afferma l'ambiguità che è "presente" in ciascuno di noi, perennemente sospesi tra cielo e terra.